Sarà la tanto citata pressione, quella che ha indotto Sannino a farsi da parte, e che, oggi come oggi, è lontana parente di quella che gravava sulla Salernitana negli anni ruggenti; sarà lo stress da panchina, l’ansia di dover fare risultato a tutti i costi in un mondo del calcio in cui oggi come non mai per un allenatore è fondamentale restare sempre sulla breccia e sulle copertine, curando l’immagine personale anche al di là del rendimento sul campo. La vita da mister a Salerno è dura. Gira e rigira, in fondo, è una verità che somiglia quasi ad un dogma. Chi siede su quella panchina sa che ha una responsabilità grande, che spesso si trasforma in un peso. Società e tifosi chiedono, come è giusto, risultati e, magari, pure gioco e chi non ha le spalle abbastanza forti crolla. Piazza calda e storicamente ostica per gli allenatori, Salerno ha forgiato professionisti che si sono poi imposti all’attenzione generale e questo a riprova del fatto che allenare la Salernitana è una sorta di esame di laurea. Il rovescio della medaglia, però, è che guidare la squadra granata può significare anche ricevere tantissimo sul piano del calore e dell’entusiasmo da parte di una tifoseria che sa apprezzare chi lavora e si impegna senza vendere fumo. Dal 2011 la vita da mister a Salerno è diventata ancor di più dura. Con Lotito e Mezzaroma la figura dell’allenatore è diventata sempre meno centrale, non il fulcro di un progetto tecnico ma una componente che deve ottimizzare le risorse messegli a disposizione. E così a qualcuno è capitato di bruciarsi, magari perchè meno rodato sul piano dei nervi. Galdersi, Sanderra, Somma hanno avuto vita breve, Sannino ha resistito un po’ di più ma non è riuscito a far meglio dei suoi predecessori. Il problema di fondo è uno: a Salerno l’allenatore non è ritenuto la figura intorno a cui debba ruotare il resto, l’interlocutore privilegiato con cui lavorare per allestire la squadra, l’uomo a cui dare sostegno e fiducia e non solo, magari, consigli su chi schierare in campo. La precarietà dell’allenatore sulla panchina granata s’è accentuata da quando è tornato a Salerno Angelo Fabiani. Il dirigente romano esonerò Perrone dopo poche settimane dal suo ritorno nel gennaio 2014 per ingaggiare Gregucci, poi scaricato a giugno. A quell’epoca Fabiani puntò su Somma, subito rinnegato in favore di Menichini, mai amato da Fabiani al punto che, nonostante la promozione in B, il toscano fu messo alla porta. Fabiani caldeggiò l’ingaggio di Torrente, difeso fino a quando Lotito non decise di prendere in mano la situazione richiamando Menichini per salvare la stagione. L’estate scorsa, il patron aveva scelto Simone Inzaghi, ma Fabiani s’era tenuto in serbo la carta Sannino, bruciatosi non solo per colpe sue. Ora tocca a Bollini, pupillo di Lotito. Starà a lui provare a dimostrare che sulla panchina granata, in fondo, non si viva poi così male.
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